La storia di Pirro affonda le sue radici nella mitologia: Pirro o Neottolemo fu infatti un eroe greco, figlio di Achille, che penetrò in Troia uccise Priamo ed ebbe Andromaca come preda di guerra. Alla fine della guerra si stabilì in Epiro, i cui sovrani cominciarono a vantarsi di essere suoi discendenti attraverso tal Molosso, figlio suo e di Andromaca. Da ciò l'Epiro si chiamò anche terra dei Molossi.
Il padre capostipite del Pirro, nostro eroe, un certo Eacida, si inventò lui pure una discendenza reale dalla stirpe di Achille, allo scopo di crearsi una ascendenza antichissima ed eroica che gli era utile politicamente.

Pirro, Re dell'Epiro, figlio di Eacida e di Ftia, sembra essere nato nel 318 a.C. ed aver finito il suo ciclo vitale ad Argo nel 272. Egli apparteneva dunque alla dinastia eacide, si vantava di discendere da Achille, e di avere la protezione di Demetrio Poliorcete.
Esistevano anche altre fonti che parlavano di questo re, il cui nome verosimilmente denotava un aspetto fulvo (Pirro), ma che sono andate perdute quali Prosseno (Epeirotika), Ieronimo di Cadia, Duride di Samo ed altre.
Le fonti tacciono tacciono sulla figura della madre di Pirro, per cui sulla Ftia, le uniche notizie che si hanno dovrebbero derivare o dalle "Memorie" scritte dallo stesso Pirro, o soprattutto da Plutarco, unica fonte pervenutaci sulla vita di Pirro. Per focalizzare bene il personaggio bisognerebbe appunto tener presente l'influenza di Ftia, cui egli era legatissimo.
Ebbe il regno già giovanissimo ereditato dal padre Eacida (307-306 a.C.). Perse però il suo regno quattro anni dopo (302), e seguì la sorte di Demetrio Poliorcete, suo cognato, fino alla disastrosa battaglia di Ipso del 301, sia pure distinguendosi notevolmente in campo militare.
Divenuto ostaggio dell'Egitto, inviato ad Alessandria nel 298, con l'aiuto di Tolomeo I°, di cui aveva sposato la figliastra Antigone, rientrò in patria, condividendo dapprima il regno con Neottolemo, poi eliminandolo, regnando da solo (295). Successivamente entrò in competizione con i diadochi con lo scopo di costituirsi un grande regno completamente suo. Verso il 285 a.C., ebbe grande successo, mantenendo l'Epiro completamente libero dalla Macedonia e dominando sulla metà della stessa, su una gran parte della Tessaglia e su parecchie regioni confinanti quali Paravea, Tinfea, Ambracia, Anfilochia, Acarnania e sull'isola di Corcira, che era stata portata in dote dalla nuova moglie Lanassa, figlia di Agatocle. Morto costui, egli guardò anche alla Sicilia, sulla quale accampò dei diritti in nome di suo figlio.
Pirro fu un generale brillante, ma le sue qualità politiche non erano altrettanto valide quanto quelle militari e tutta la sua carriera fu divisa tra la tentazione di avere un Impero ad Oriente e quella di una conquista verso Occidente, in terre italiane.
I suoi piani di di grandezza furono stroncati però da Lisimaco che lo privò di tutti i possedimenti che aveva conquistato. Questo avvenne nel 284 a. C.
Ecco che Pirro allora voltò il suo sguardo verso l'Occidente, con lo scopo di riunire sotto di sè le colonie greche dell'Italia meridionale e della Sicilia. Questo tentando di sottrarle al dominio dei Romani e dei Cartaginesi.

L'occasione giunse ben presto, ma bisogna fare una premessa.
Roma, debellati i Sanniti, gli Etruschi, i Sabini, i Peligni ed i Galli Senoni, nel 290 poteva considerarsi padrona dell'Italia centro-settentrionale e, con la fondazione della colonia di Venosa in Lucania, non nascondeva l'intenzione di nutrire mire espansionistiche anche verso il Meridione e la Magna Grecia.
Nel 280 la città greca di Turi fu minacciata dalle popolazioni italiche dei Lucani. La soluzione più semplice sarebbe stata quella di rivolgersi a Taranto, la più fiorente tra le città a lei vicine, ma i rapporti ostili con i suoi abitanti costrinsero Turi a mettersi sotto la protezione dei Romani i quali, ovviamente, accolsero volentieri la richiesta di aiuto in quanto questo avrebbe permesso loro di inserirsi nella frazionata politica dell'Italia meridionale.
Roma inviò dunque un presidio a Turi, ma 10 navi da guerra, violando il trattato di navigazione con Taranto, che le obbligava a non oltrepassare il promontorio Lacinio (Crotone), si presentarono dinanzi al porto della città, furono assalite e quattro vennero anche affondate ed una quinta catturata, trucidandone l'equipaggio. Le altre fuggirono. Il Senato romano chiese subito soddisfazione dell'accaduto, ma gli ambasciatori vennero insultati e questo episodio decretò lo stato di guerra fra le due città.

I Tarantini, potenti in campo economico, ma assai deboli sul piano militare, richiesero l'intervento di Pirro, e questi non si lasciò sfuggire l'occasione di inserirsi nelle faccende dei Greci d'Italia con la speranza di ingrandire il suo regno e di diventare il protettore di tutta la Magna Grecia, dalla Puglia alla Sicilia.
Pirro preparò così una consistente spedizione che contava su 20 elefanti da combattimento, 3.000 cavalieri tessali, i migliori dell'Ellade, 20.000 fanti, 2.000 arcieri e 500 frombolieri, e l'imbarcò sulle navi messe a disposizione dai Tarantini.
Una furiosa tempesta primaverile disperse però l'imponente flotta, che non doveva essere inferiore alle 400 navi. Poche imbarcazioni però affondarono e la maggior parte del corpo di spedizione potè essere salvato, sebbene fosse disperso un po' ovunque. Alle forze del re si aggiunsero inoltre 3.000 uomini guidati da Cinea che si trovava già in Puglia.
Pirro, in una Taranto che aveva brutalmente sottoposto alla sua autorità, era anche intento ad integrare i contingenti locali con quelli dell' Epiro, parimenti attendeva i rinforzi lucani e sanniti che la stessa città di Taranto gli aveva assicurato.
Venuto a sapere che il console Publio Valerio Levino scendeva verso sud con un esercito, Pirro pose l' accampamento fra le città di Pandosia ed Eraclea, vicino alle rive meridionali del fiume Siri, oggi Sinni, mentre i Romani si accamparono sulla riva opposta ad Eraclea.
Eraclea era stata fondata nel 433 dopo una vittoria su Turi, e quindi era una città fidata ed una sicura base di approvvigionamento per gli Epiroti. Alle forze del re si aggiunsero piccoli contingenti di scarso valore bellico forniti da Taranto. Altri aiuti , messi a disposizione dai Lucani in guerra con Turi e Roma e dai Sanniti, eterni rivali dei Romani, si sarebbero presto messi in marcia.
Il re non sapeva nulla dei Romani e certamente, con l'innato orgoglio di tutti i Greci di appartenere ad un popolo superiore, doveva giudicarli una nazione rozza ed incivile. Si dice tuttavia che, osservando da lungi l'aspetto ordinato del campo romano, si rivolgesse all'amico Megacle riconoscendo lealmente che: "...la disposizione di questi barbari non è affatto barbara".

Famoso piatto che rappresenta Pirro con i suoi elefanti

Pirro non aveva alcuna intenzione di attaccare subito battaglia, in attesa dell'arrivo dei Lucani e dei Sanniti. Mandò perciò semplicemente alcuni presidi a controllare le rive del Siri; ma quando i Romani cominciarono ad attraversarlo in più punti ed alla spicciolata, si vide costretto ad accettare il combattimento ed a schierare la cavalleria sulla sponda meridionale del fiume.
Comunemente si dice che ad Eraclea i Romani rimasero sconvolti dagli elefanti che essi vedevano per la prima volta: l'uso dell'elefante indiano come arma di sfondamento, appreso da Alessandro ed adottato successivamente da tutti i sovrani ellenistici e dai Cartaginesi, che importavano quelle bestie già addestrate direttamente dall'India, era assolutamente sconosciuto in Italia.
Quel che di solito si trascura è che nel 280 i romani vennero per la prima volta a contatto con la falange, l'imbattibile schieramento macedone reso celebre da Filippo II nella battaglia di Cheronea nel 334. La falange comprendeva sei taxis di 1.500 uomini l'una, per un totale di circa 9.000 falangiti. Non vi è ragione per supporre che quella di Pirro avesse un differente numero di soldati, e quindi il re aveva con sé due falangi (18.000 uomini circa).
Per la prima volta nella storia venero a confronto due diverse disposizioni tattiche: l'ordine chiuso greco e lo schieramento mobile romano; massiccio e monolitico il primo, irto di migliaia di punte di lancia, dinamico ed agile il secondo.
In un primo momento Pirro pensò di poter arrestare l'apparentemente disordinato attraversamento del Siri da parte delle fanterie con la sola cavalleria, ed emulando Alessandro, si mise a combattere tra le prime file, mostrando un certo disprezzo verso l'abilità militare del nemico: ma per quanto riguarda il valore singolo del combattente romano, il Re ne fece immediatamente esperienza allorchè il colpo di lancia di un cavaliere frentano di nome Oplaco gli abbatté il cavallo ed egli fu salvato solo dall'intervento dei suoi ufficiali. Fattosi più prudente, Pirro scambiò allora la veste e le ricche armi con quelle dell'amico Megacle, che infatti fu ucciso quasi subito da un tale Dessio che lo scambiò per il re. Quando poi vide che con i soli cavalieri non riusciva a bloccare il continuo flusso dei nemici, anche perché Levino aveva fatto intervenire la propria cavalleria a sostegno dei legionari, diede ordine alle falangi di avanzare.
Lo scontro rimase a lungo incerto sia tra le fanterie che tra le opposte cavallerie: solo in un secondo momento Pirro fece avanzare gli elefanti, che dunque per qualche ragione dovevano essere disposti dietro, e non sulla fronte delle falangi, come sarebbe stato da aspettarsi.
Plutarco infatti riferisce: "..Alla fine, poiché soprattutto gli elefanti premevano sui Romani, e i cavalli, anche a distanza, non potevano sopportarne la vista e portavano via i cavalieri, Pirro lanciò la cavalleria tessalica contro i nemici in disordine, li mise in fuga e ne fece una grande strage".
Il console Levino non seppe riorganizzare le forze superstiti: abbandonò l'accampamento al nemico e consentì a Pirro di avanzare sino a Preneste, ad una trentina di chilometri da Roma. Il Senato non volle tuttavia togliere il comando al console sconfitto.
Pirro fu molto orgoglioso di aver domato il nemico con il concorso delle sole sue forze e dei Tarantini, senza l'intervento dei Sanniti e dei Lucani. Lo conferma l'iscrizione di un suo ex voto offerto al santuario di Dodona dopo la battaglia di Eraclea. Dalla durezza dello scontro sostenuto e dal valore mostrato dall'avversario tuttavia ricavò un sincero rispetto ed una cavalleresca ammirazione verso il nemico, sentimento molto raro negli antichi, e quasi sconosciuto presso i Greci.

Secondo le fonti citate da Plutarco, la battaglia di Eraclea comportò costi altissimi per entrambe le parti: per Dionisio di Alicarnasso ci sarebbero stati 15.000 caduti nelle schiere romane e 13.000 caduti in quelle di Pirro (il che significherebbe sostanzialmente la metà dell’esercito epirota), mentre per Ieronimo di Cardia (vissuto all’epoca di questo conflitto) il console Levino avrebbe perduto 7.000 uomini e Pirro circa 4.000, ossia più di un quinto degli effettivi di Epiro. Ma, in ogni caso, le perdite sofferte da Pirro erano molto più gravi di quanto potesse sembrare, per la circostanza che la sua armata si trovava ad operare in un teatro di guerra assai lontano dalla madrepatria, mentre i Romani erano in condizione di riorganizzarsi rapidamente con nuovi contingenti reperibili nel mondo italico.
Si narra che il commento di Pirro alla vittoria di Eraclea fu: "un'altra vittoria così e tornerò in Epiro da solo...".

La vittoria conseguita da Pirro sui Romani suscitò ovviamente un' impressione enorme e produsse subito effetti notevoli: mentre i Sanniti, i Bruzii ed i Lucani abbandonarono ogni remora ed entrarono apertamente nell’esercito epirota-tarentino, le città magno-greche di Locri e di Crotone si liberarono dei presidi romani ivi attestati (non pure Rhegium, dove la guarnigione mercenaria detta “Legio Campana” si impadronì ferocemente della città, sicché ricevette da Roma una punizione esemplare ed ammonitrice, benché a guerra finita: 271 a.C.).
Pirro, accresciuto di forze e di fama, mosse verso la Campania e quindi, devastate la valle del Liri e la città di Fregellae, lungo la via Latina riuscì a portarsi sin quasi a 300 stadi da Roma: al riguardo Appiano, sostanzialmente confermato da Plutarco, cita espressamente la città di Anagni, mentre in Floro e in altri Compendi Liviani viene addirittura indicata l’assai più prossima Preneste. Senonché questa impresa arditissima, contrariamente alle aspettative dell’Epirota, non suscitò ribellioni a Roma né raggiunse il fine ultimo di indurla a trattare, principalmente perché nel mondo campano-laziale era già maturata, a differenza che nella Magna Grecia, una solida integrazione con la stessa Roma.
Considerata la forza dei romani, Pirro tentò di mandare a Roma uno dei suoi più validi mediatori, Cinea. L'abile oratore era quasi riuscito a convincere i romani ad abbandonare la guerra e ad accettare le condizioni di Pirro quando trovò l'opposizione di un Senatore, Appio Claudio, detto il Cieco. Non si trattava di un patrizio come tanti, era un uomo di grande autorità, costruttore del primo acquedotto romano, della via Appia, nonchè di numerosi palazzi, teatri e basiliche. Fu anche due volte censore, e poeta noto, tra l'altro per questo detto celebre: "Faber est suae quisque fortunae" (Ognuno è artefice del proprio destino). Appio Claudio apostrofò duramente i senatori che volevano venire a patti col nemico, li disse vili e dimentichi delle glorie passate di Roma e dei suoi grandi uomini. Lo immaginiamo, dal fondo del Senato, canuto, innalzare lo sguardo spento nel vuoto, mentre le sue parole aspre riportano i senatori ai valori dell'antica Repubblica.
Il discorso di Appio Claudio merita di essere riportato per la sua eloquenza: "Dov'è finito quel discorso, infatti, che ripetevate sempre a tutti, secondo cui, se il grande Alessandro fosse venuto in Italia e si fosse scontrato con noi, che eravamo giovani, e con i nostri padri, allora nel fiore dell'età, adesso non sarebbe celebrato come invincibile, ma la sua fuga o la sua morte nella nostra terra avrebbero reso Roma più famosa?"
Uscito finalmente dall'indecisione, il Senato respinse le proposte del Re epirota congedando l'esterrefatto Cinea.
Nonostante il parere contrario del suo ambasciatore, Pirro continuò la guerra.
Giunto nei pressi di Roma, le sue schiere di elefanti vennero sbaragliate grazie agli stessi stratagemmi che avevano usato i galli contro i romani: le legioni costruirono carri muniti di lance infuocate e palizzate mobili, cosicché i pachidermi furono messi rovinosamente in fuga travolgendo gli stessi epiroti.
Un altro durissimo scontro avvenne ad Asculum nel 278, dove vinse di misura Pirro. Il re dell'Epiro ottenne altre modeste vittorie, ma sempre al prezzo di gravi perdite ed egli stesso venne ferito.

Le schermaglie con Pirro si arricchirono di episodi altamente educativi, adatti alla propaganda romana. Cicerone ad esempio ci tramanda di un disertore che giunse di nascosto al campo romano proponendosi di avvelenare Pirro in cambio di denaro. Il console di turno, Gaio Fabrizio Luscino, respinse nettamente la proposta e fece riaccompagnare all’accampamento epirota il traditore. “Sarebbe stato per noi un grande disonore e una grande colpa l'aver vinto non col valore, ma con il delitto un avversario con cui si lottava per la gloria” (Cicerone De officis, libro III ).
Sempre Fabrizio fu protagonista di questa schermaglia con Pirro: giunto al campo per trattare, il Re epirota lo blandì con grandi onori ed un sontuoso banchetto. Infine, giunti ad un colloquio personale, Pirro cercò di corromperlo con somme ingentissime se fosse riuscito a convincere il Senato romano ad accettare la pace. Scandalizzato Fabrizio affermò: "Offri il tuo oro agli schiavi, i quali non hanno amor di patria.” Il giorno dopo Pirro, seccato per il rifiuto del romano, cercò di intimidirlo con uno strattagemma: fece entrarte un elefante barrente nella tenda ove si svolgeva il colloquio. Fabrizio non mosse ciglio di fronte a quella sceneggiata, nonostante egli non avesse mai visto un elefante, ed affermò: “Tu oggi mi vedi quale io ero ieri; e come ieri non mi vinse la potenza del tuo oro così oggi non mi atterrisce la minacciosa presenza del tuo bestione. “
Fabrizio e Pirro.
Amsterdam Heritage. Ferdinand Bol, 1656

Quindi Pirro, non riuscendo per il momento a piegare i romani nonostante le vittorie sul campo di battaglia, passò in Sicilia. Costrinse i Cartaginesi a ridursi al possesso del solo Lilibeo (278-276). ma quando stava per avere una vittoria completa, a causa dell'opposizione degli stati siciliani, fu costretto a lasciare l'Isola.
La presenza di Pirro in Italia minacciava tutte le potenze del Mediterraneo: Cartagine addirittura si alleò ai Romani per lottare contro il Re epirota. Pirro conquistò egualmente la Sicilia nel 277, ma fu odiato dalle popolazioni per la sua enorme richiesta di tassazioni.

Sosistrato, tiranno di Agrigento, era in opposizione con un certo Tinione di Siracusa. Ambedue avevano un contingente di 10.000 soldati, quindi con pari forze. Nessuno dei due riusciva a prevalere sull'altro. Cartagine giudicò che era giunto il momento di invadere Siracusa, nemica di sempre, con 50.000 uomini e 199 navi. I siracusani chiesero allora aiuto a Pirro. Egli accettò pensando, forse giustamente che se Siracusa fosse caduta in mano ai Punici, egli si sarebbe trovato fra due fuochi, quello cartaginese e quello romano.
Ma non solo: così gli veniva offerta la possibilità di diventare il Re di tutta la Sicilia.
Frattanto i Romani dopo la sconfitta patita presso Ascoli, avevano stipulato un'alleanza con i Cartaginesi per fronteggiare Pirro; ma alla base di quest'alleanza c'era una notevole diffidenza reciproca.
Nel frattempo Pirro, trovò un ottimo alleato nel Tiranno di Tauromenio, un certo Tindarione, che gli consentì di approdare con le sue navi nel porto di Naxos per poi raggiungere Siracusa. Qui Pirro ebbe accoglienze entusiastiche. Ma questo non bastava: egli voleva liberare tutta la Sicilia dall'egemonia cartaginese.
Caduta Eraclea, Pirro trovò validi alleati in Eraclide, tiranno di Leontini, mentre Sositrato espugnava Agrigento. Altri alleati furono sia Selinunte che Segesta.
La sola Erice ed il Lilibeo cartaginese sembravano inespugnabili.
Pirro, non accettando vantaggiose proposte cartaginesi in denaro e territori siciliani, preoccupato della riorganizzazione romana, pensò di attaccare i cartaginesi in casa loro, in Africa, ma le popolazioni locali, ricordandosi che Pirro era pur sempre uno straniero, ebbero verso di lui sentimenti ostili. Anche Sosistrato gli si ribellò e Titione dovette essere ucciso.
Anche i Sicilioti arrivarono al punto di fare causa comune con i punici e con i Mamertini.
Così Pirro capì che la partita era perduta e che la sua permaneza in Sicilia avrebbe potuto compromettere la sua spedizione in Italia. Perciò nel 276 abbandonò la Sicilia.
Ma al di quà dello Stretto Pirro trovò 10.000 Mamertini, mercenari italici per lo più campani al soldo del tiranno Agatocle di Siracusa, che, dopo la morte di questi (289 a.C.) misero in atto a Messina un violento e sanguinario colpo di stato, arrivando di fatto ad assumere il controllo, strategicamente assai rilevante, dello Stretto. Erano decisi a chiudergli la via verso l'Italia perchè Pirro, arrivando in Sicilia aveva invaso la Piana di Milazzo, territorio mamertino. E questi non l'avevano dimenticato.
Pirro, da grande stratega militare, capì che non gli conveniva dare battaglia: riuscì ad evitare uno scontro frontale che ugualmente avvenne quando il re, muovendo da Locri, si decise di tornare indietro affronatndo nel 276 i Mamertini, che furono sonoramente sconfitti.

Finalmente potè quindi dirigersi alla volta di Taranto e nel 275 incontrò nuovamente i romani sul suo cammino.
Lo scontro decisivo si ebbe a Maleventum nel 275 a.C. I due consoli dell'Urbe erano il patrizio Lucio Cornelio Lentulo e il plebeo Mario Curio Dentato. Il patrizio marciava verso la Lucania, il plebeo verso il Sannio. Fu una perfetta mossa di accerchiamento. Dentato respinse ancora una volta sia soldati che elefanti nemici, grazie ai carri muniti di aste e torce infuocate, mentre gli arcieri scagliavano dardi infuocati.
La presenza di Pirro nell'Italia meridionale

Non fu una vittoria netta per i romani. Dopo un grande massacro da ambo le parti a sera gli eserciti tornarono ai loro accampamenti malconci, senza che uno dei due fronti avesse ceduto terreno. Il re epirota dovette però constatare che con così pochi uomini non avrebbe più potuto sostenere un’ulteriore battaglia.
Decimate le sue forze, Pirro si vide perciò costretto ad abbandonare frettolosamente l'Italia e si ritirò definitivamente nel suo regno al di là del mare. Taranto cadde quindi nelle mani dei romani. Per l'occasione, Maleventum venne ribattezzata Beneventum.

I romani avevano assunto così il controllo dell'intero centro-sud. Sanniti, Bruzi e Lucani erano stati definitivamente ridotti a vassalli. Un nuovo tassello era stato aggiunto nella costruzione del mosaico repubblicano romano. Pirro nonostante le sue mezze vittorie, era stato respinto. Si trattava di un esame di maturità notevole per la nascente potenza romana, la vittoria su Pirro fece scalpore e il nome di Roma si diffuse per la prima volta nel Mediterraneo.
Per Pirro la campagna d’Italia non era indispensabile, problemi ben maggiori lo aspettavano in patria. Tuttavia egli dimostrò di possedere lo spirito del vero condottiero, disposto a qualunque sacrificio pur di ottenere vittorie. Purtroppo per lui l’Italia non era un terreno di conquista qualunque.
Ne avrebbe tratto le medesime amare conclusioni Annibale settant’anni più tardi: nonostante le strabilianti vittorie sul campo, la guerra fu perduta. Lo spirito indomabile dei romani e la fedeltà dei popoli a loro sottomessi furono elementi di maggior peso che non l’abilità strategica in battaglia.

La morte di Pirro

Dopo la battaglia di Benevento, Pirro dovette ritornare in Epiro con la minaccia-promessa di ritornare quanto prima in Italia. In patria riprese la guerra per il predominio sulla Grecia, opponendosi ad Antigono Gonata per il possesso della Macedonia e contendendo a Sparta la supremazia sul Peloponneso.

Dopo un paio di battaglie dovette ritirarsi di fronte alle forze congiunte dei nemici, rifugiandosi ad Argo. Egli riuscì ancora una volta nel 274 a sottomettere tutta la Macedonia e tentò di restaurare Cléonime a Sparta nel 272, ma trovò la morte durante la presa di Argo, ucciso da una tegola che una vegliarda gli gettò dall'alto di un tetto.

Una morte indegna per un grande condottiero.

Antigono Gonata riceve la testa di Pirro

Per un duro destino, l'iniziale vittoria di Eraclea o forse il successivo scontro presso Ascoli di Puglia, valsero a Pirro quel proverbiale detto che affermava una vittoria estremamente pesante e costosa.

Esso è un efficace proverbio pressoché in tutte le lingue:

Pyrrhic victory, in inglese;
Victoire à la Pyrrhus, in francese;
Victoria pírrica o Victoria a lo Pirro, in spagnolo;
Vitória de Pirro, in portoghese;
Pyrrhusseger, in svedese;
Sieg des Pyrrhus o Pyrrhus-Sieg, in tedesco.